La logica del recinto

Note per un’antropologia del potere pastorale

L’occupazione delle terre 

Karl Marx nel Primo libro de Il capitale, parlando dell’«accumulazione capitalistica», con il suo stile ironico, si prendeva gioco dell’impostazione ideologica degli economisti che spiegavano il fenomeno con quella che egli considera la favola dell’economia politica, il «peccato originale economico» che avrebbe consentito a pochi di dominare i molti: «C’era una volta, in età da lungo tempo trascorsa, da una parte un’élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche di più» (1993: 777). La verità, secondo Marx, era che «i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle» (777). L’accumulazione è il risultato della predazione: «Nella storia reale la parte più importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza […] L’accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione» (778). 

Il ragionamento marxiano, sia dal punto di vista della critica dell’ideologia, che da quello degli effetti di potere, è perfettamente adatto a spiegare, non solo la «preistoria del capitale», ma anche quanto avvenne in epoca protostorica in Europa con l’occupazione del continente da parte delle gens indoeuropee provenienti dal Caucaso che, nel tardo Neolitico (tra il V e il III secolo a.C.), si abbatterono sul continente soppiantando le precedenti formazioni culturali. I fatti che segnarono quest’epoca antica sono stati descritti dalla paletnologia (Vere Gordon Childe, tra i primi) e dall’archeologia (Marija Gimbutas, che sottolinea il passaggio da una società matrilineare ad una centrata sul patriarcato e sul ruolo del guerriero). Risultati di ricerche e studi che ci spingono a riconsiderare l’origine del potere e delle istituzioni sociali che abbiamo conosciuto in epoca storica. Anche il potere attuale ha un’origine antica. Qualcosa di simile a quanto Marx osserva essere all’origine dell’accumulazione capitalistica accadde, in effetti, anche in epoca protostorica per quanto riguarda l’appropriazione e la divisione della terra e degli schiavi: una «accumulazione originaria preistorica» che, per conservarsi nel tempo, ha inventato istituzioni proprie e adeguate. 

Con l’origine delle società pastorali indoeuropee e con i loro spostamenti verso l’Europa, all’epoca abitata da altre popolazioni che praticavano l’agricoltura, vengono gettate le basi per le istituzioni che daranno fondamento alla successiva civiltà storica del continente. Ciò che qui vogliamo mettere in luce è la stretta filiazione che lega la pratica giuridica che fonda la società indoeuropea con la «pratica della produzione pastorale» (da intendersi letteralmente, come attività di allevamento del bestiame, e non nell’ottica foucaultiana che la riferisce al solo potere del prete). 

Consideriamo, innanzitutto, in cosa consiste la pastorizia nell’epoca protostorica. L’allevamento è un’attività di custodia tesa a far crescere animali in condizioni di cattività. Quando l’umanità si limitava alla caccia, l’uccisione della preda avveniva per il suo consumo immediato. A questa attività primaria si sostituisce la cattura di alcune specie di erbivori, mansueti e non aggressivi, allo scopo di addomesticarli e garantire un costante approvvigionamento di cibo, emancipando l’uomo dalla dipendenza dalle variabili naturali che l’attività venatoria implica. Se prima l’uomo inseguiva l’animale nei suoi spostamenti sul territorio, ora è lui che lo guida nella transumanza. Si opera, così, una selezione tra gli animali che si dimostravano docili e domesticabili, si escludevano gli altri, quelli aggressivi e pericolosi. Il mondo dell’allevatore divide la natura tra animali utili, che cattura e di cui si nutre, e animali dannosi o pericolosi, con i quali egli è in competizione ecologica. Per distinguere territorialmente questi due mondi sulla base della loro utilità, il pastore ricorre alla fondazione di uno steccato, escludendo, se pur temporaneamente, una parte del suolo dal restante spazio aperto della steppa. La parte così circoscritta diventa il luogo nel quale vige l’organizzazione dei pastori, quella esterna è piuttosto la parte esclusa da questa organizzazione, territorio del potenziale aggressore, il lupo. 

La vita interna al recinto è vita protetta, quella esterna è vita nemica. Chi è ne è escluso rimane esposto ai pericoli, spinto sul territorio della steppa aperta. Nell’attività pastorale un ruolo determinante è ricoperto dalla gestione fisica del bestiame. Gli animali devono essere stabulati, sorvegliati, gestiti, distribuiti entro un confine determinato. Costruire un recinto nel quale chiudere il bestiame per la notte è un’operazione senza la quale gli armenti rimarrebbero esposti alle aggressioni dei lupi e degli altri predatori. L’idea di recinzione definisce un modello logico-analitico, un modello in base al quale si separa una parte di territorio che, all’interno, viene suddiviso funzionalmente. Il recinto è lo strumento «politico» che divide lo spazio tra ciò che è incluso e ciò che è escluso, il dentro e il fuori, l’interno e l’esterno. Per questo il recinto può essere preso a prototipo neolitico dei sistemi di contenzione e delle istituzioni totali di cui i dispositivi disciplinari moderni sono gli eredi. L’eccezione sovrana del pastore s’impone su tutto quanto il recinto circoscrive, sulla vita della bestia e su quella del gruppo umano. La vita in esso racchiusa è vita protetta, ma la protezione dipende dalla volontà del pastore che sulla bestia ha diritto di vita e di morte. La vita al di fuori, piuttosto, per il pastore è vita esclusa, terra di conquista privata di diritto autonomo. Un dispotismo funzionale del pastore, nel quale il gregge è ridotto a oggetto del potere e la sua «nuda vita» esposta al potere sovrano. Ciò che è della gens (la stirpe del padre) e ciò che gli appartiene come proprietà (il gregge) si oppone a ciò che è esterno e contro cui si compete per la sopravvivenza, lo straniero, il nemico, il lupo. «Nell’antica Irlanda lo straniero era chiamato […] “lupo blu”. Nelle leggi ittite è definito “lupo” chi perde la protezione della legge per aver rapito una donna. Nell’India vedica, infine, “lupo” designa lo straniero ostile» (Campanile; 1994: 13-14). 

L’origine del mito del lupo è antica e risale a un tempo precedente la cultura dell’allevamento. Già per i cacciatori, il lupo, occupando la medesima nicchia ecologica dell’uomo, è un rivale col quale si compete costantemente. Per gli allevatori il problema è anche più cruciale, perché egli li minaccia direttamente aggredendo le greggi. Per questi uomini, però, il lupo è anche un esempio di come l’organizzare in branco al seguito di un capo garantisca il successo di specie nelle imprese predatorie. Ingraziarsi la benevolenza dello spirito del lupo per il pastore vuol dire, quindi, da un lato, allontanarne le intenzioni aggressive dalla propria proprietà, dall’altro, acquisirne la forza, il coraggio, la capacità di combattimento e la ferocia, divenendo egli stesso un lupo, attraverso i riti di possessione. Così invasati da quello spirito selvaggio della predazione, gli uomini divenivano essi stessi spietate e implacabili belve. Il lupo, da grande antagonista ecologico, diveniva così un modello.

Per difendersi da questi animali da preda la stabulazione degli armenti è una strategia essenziale. Chiudere per proteggere, sottomettere per preservare: le attività del lavoro pastorale sono rivolte tutte a garantire la conservazione del bene mobile rappresentato dagli armenti contro gli eventuali attacchi dei carnivori. Questa strategia dispone a una peculiare modalità di relazione con l’animale e con l’ambiente, strategia che informa di sé tutti gli aspetti della vita sociale del pastore. Il crudele rapporto del pastore con l’animale si trasferisce all’interno del gruppo umano strutturandosi come rapporto prototipico del potere sociale. Ci sono significativi esempi di termini linguistici indoeuropei, in origine legati alla amministrazione pastorale e alla coercizione esercitata sugli animali, che indicano, in seguito, strumenti e ruoli del potere sovrano. 

Il vocabolario della sovranità pastorale

Tra i termini greci che ricordano l’antico rapporto tra istituzioni del diritto e pratica pastorale, quello la cui etimologia è più densa di significati è certamente nomos, che merita un’analisi dettagliata. Contestando l’usuale traduzione del termine con quello di ‘legge’, già Carl Schimitt, ne Il Nomos della terra, collegava il nomos all’originaria suddivisione della terra che segue una conquista. Dice Schimtt: «La parola greca che designa la prima misurazione, da cui derivano tutti gli altri criteri di misura; la prima occupazione di terra, correlativa divisione e ripartizione dello spazio; la suddivisione e distribuzione originaria, è nomos» (54: 1991). La sua analisi si concentra sul «collegamento esistente tra nomos e occupazione della terra». «Tutti i popoli che si mossero in nuovi spazi e che nel corso dei loro spostamenti divennero stanziali -fossero essi greci, italici, germanici, slavi, magiari, o appartenenti ad altre stirpi, tribù o sèguiti-, tutti compirono conquiste territoriali e l’intera storia coloniale non è che una storia di processi di formazione determinati spazialmente, nei quali ordinamento e localizzazione sono tra loro connessi. In questa fase originaria della conquista territoriale diritto e ordinamento sono -come si è già detto- un’unica cosa e nella coincidenza iniziale di localizzazione e ordinamento, non possono essere separati l’uno dall’altro» (74-75). L’occupazione del territorio, ordo ordinans, è l’atto costituente sul quale si basano le istituzioni costituite, l’atto che fonda l’ordinamento giuridico.

Schmitt ritiene il concetto di nomos non riducibile a quello di legge. «Nomos, per contro, viene da nemein, una parola che significa tanto “dividere”, quanto “pascolare” [Weiden]. Il nomos è pertanto la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo, la prima misurazione e divisione del pascolo, vale a dire, l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva […] Nomos è la misura che distribuisce il terreno e il suolo della terra collocandolo in un determinato ordinamento, e la forma con ciò data dell’ordinamento politico, sociale e religioso. Misura, ordinamento e forma costituiscono qui una concreta unità spaziale. Nell’occupazione di terra, nella fondazione di una città o di una colonia, si rende visibile il nomos con cui una tribù o un seguito o un popolo si fa stanziale, vale a dire, si colloca storicamente e innalza una parte della terra a campo di forza di un ordinamento» (59). 

Secondo la medesima logica, nomos ottiene anche il significato di muro quando definisce localizzazioni sacrali. Dunque, sostiene Schmitt, nomos non indica un qualsiasi atto di posizione o una norma che sia separata da una concreta physis. «Il nomos invece, nel suo significato originario, indica proprio la piena immediatezza di una forza giuridica non mediata da legge; è un evento storico costitutivo, un atto di legittimità che solo conferisce senso alla legalità della mera legge» (63)È in questo senso, conclude Schmitt, che la parola nomos non può essere ridotta al significato di legge, ma deve essere riferito a un atto originario, costitutivo e ordinativo in senso spaziale: la suddivisione del territorio. 

Schmitt, quindi, è deciso nel legare il nomos alla conquista territoriale: «A ogni conquista territoriale è in qualche modo connessa una divisione e una ripartizione della terra conquistata, ma la divisione è sempre una conseguenza della conquista: essa costituisce già un effetto e un’emanazione, sia verso l’interno che verso l’esterno, del radical title» (73), ossia il titolo giuridico sul quale si radica qualsiasi ordinamento. Se l’intuizione di Schmitt è ineccepibile e certamente si deve ritenere il nomos derivato dall’occupazione della terra, va però precisato che il concetto si applica al territorio stanziale soltanto in un secondo momento. 

In principio, esso si riferiva al territorio occupato temporaneamente dai gruppi di pastori nomadi. Secondo quanto sostenuto da Emmanuel Laroche, in Histoire de la racine nem- en grec ancien (1949), inizialmente la radice nem- individua, non la divisione delle terre, ma la distribuzione degli animali: «Il lavoro dei pastori, in epoca omerica, non ha nulla a che vedere con una divisione delle terre». Si tratta piuttosto, secondo Laroche, di suddividere gli animali e distribuirli, per cui nem- rimanda alla pratica nomade e non alla legge, un’attribuzione questa che sarebbe comparsa solo dopo Solone (VI secolo a.C.). In origine «Némō è ‘dividere secondo la convenzione o la legge’. Pertanto un pascolo spartito secondo il diritto basato sul costume si chiamerà nomós. Il senso di nómos ‘la legge’ si riporta all’attribuzione legale», cioè all’«ottenere legalmente una spartizione», secondo il costume (Benveniste; 2001: 62). Il riferimento alla legge è quindi derivato dalla spartizione del pascolo. Solo in un secondo tempo Nomos acquista il significato di occupazione delle terre, anche se per questo ampliamento semantico l’epoca soloniana sembra forse troppo tarda. Concludendo, inizialmente nomos si riferisce senza dubbio alle pratiche pastorali di occupazione temporanea dei territori della steppa, con la relativa distribuzione degli animali nei recinti. 

Se è vero, quindi, che il concetto di Nomos venne ad applicarsi alla terra, come sostiene Schmitt, è anche plausibile che nell’originaria condizione di nomadismo esso non si riferisce al territorio in sé, quanto piuttosto al recinto nel quale è contenuto il bestiame – nel senso di qualcosa «tenuto dentro» e nel senso di «sostanza propria» di ciò che è nel recinto. In origine, pertanto, il nomos ha un legame stretto con la ripartizione definita dal recinto, sistema regolato per eccellenza, nel quale si distribuisce il gregge e al cui centro è la dimora del pastore e della sua famiglia. Ricorda Francisco Villar che «gli archeologi trovano in diversi luoghi dell’Europa già indoeuropizzata (a partire dal IV millennio) certe costruzioni a forma absidale, che in alcune zone (Bulgaria) continuano ad essere costruite anche ai giorni nostri con la stessa forma e per lo stesso fine: rifugio notturno per il bestiame e alloggio per il pastore» (1997: 165). In bulgaro queste abitazioni sono dette poljati, nome messo in relazione con il latino palatium, l’antica dimora dei pastori (termine di origine indoeuropea la cui radice troviamo ancora in sanscrito dove pālás vuol dire «pastore»).

Successivamente, con l’occupazione stabile delle terre e con la sedentarizzazione dei popoli pastorali, il criterio viene ad applicarsi alla terra come bene immobile. In ciò si legge un’inaspettata primordiale relazione dei principi giuridici e dell’ordinamento della proprietà con la società di allevamento. Se Schmitt non parla dello sfondo originario del termine, coglie però la relazione tra nomos e conquista territoriale. Nella scienza giuridica, come è noto, la validità di un sistema di diritto è strettamente connesso all’ordine definito dai confini, che rappresentano l’ambito giurisdizionale entro il quale un diritto è operante. La sovranità dello Stato si definisce sul confine territoriale in quanto delimitazione di ciò che cade sotto un determinato ordinamento giuridico.

Interessante in tal senso, per i significati che assume e in cui è declinabile, è la radice nem- e il verbo greco nèmo che ne deriva. Nèmo può alternativamente significare ‘io pascolo’, ‘distribuisco’, ‘governo’, ‘stimo’, ‘spartisco’, ‘assegno’ e ‘conduco’, nella fattispecie ‘conduco al pascolo’, ma anche ‘io abito’, ‘occupo’, ‘possiedo’ e ‘prendo cura’, là dove è noto che i pastori nomadi riconoscevano il possesso e le abitazioni di qualcuno dal pascolo delle sue greggi. Dallo stesso verbo derivano i sostantivi nomàs e nomados, indicanti il ‘nomade’, l’‘errante’, il ‘pascolante’, mentre il sostantivo oi nèmontes indica i ‘pastori’ e nomès il ‘pascolo’. Altresì, dalla medesima radice, deriva nemesis (‘ripartizione’, ‘distribuzione’) e il verbo nemein (‘distribuire per far pascolare’). Medesimo significato di ‘pascolo’, ‘nutrimento’, nonché ‘divisione territoriale’, ‘provincia’, ha il sostantivo nomòs, come pure nòmos sta per ‘usanza’, ‘costume’, ‘legge’, nel quale significato è implicito l’uso «con forza di legge». A questo punto, prendendo nomos, in quanto volontà che decide della distribuzione del pascolo, come elemento paradigmatico dell’organizzazione sociale, tutta la terminologia che ne deriva trova la sua coerenza. Ne è esempio ulteriore il termine nomìsma, nella cui etimologia scorgiamo il significato di un’istituzione definita dalla ‘consuetudine’, ma anche alla ‘moneta’, il ‘valore reale delle cose’, la misura legale in generale. 

Il ragionamento schmittiano sul potere sovrano può essere comprensibile solo in riferimento al potere pastorale. «Pastore» e «recinto» sono i poli originari, non solo dell’attività di allevamento, ma anche della relazione di potere e sovranità che, in epoca storica, trova corrispondenza nel rapporto sangue-terra o, altrimenti detto, stirpe-possedimento (su cui Schmitt costruisce la riflessione sul nomos della terra). 

Il potere di separare

Ne deriviamo l’ipotesi che l’origine dei principi giuridici è da ricercarsi nella pratica arcaica della produzione materiale delle società di allevamento. Nell’attività pastorale un ruolo determinante è ricoperto dalla gestione fisica del bestiame. Gli animali (la proprietà del pastore) devono essere stabulati, sorvegliati, gestiti, distribuiti entro un confine determinato. Costruire un recinto nel quale chiudere il bestiame per la notte è un’operazione senza la quale gli armenti rimarrebbero esposti alle aggressioni dei lupi e degli altri predatori. Decidere del recinto conferisce un indubbio potere al pastore, perché presuppone la conoscenza del territorio e dei pericoli a esso connessi. Ci vuole esperienza ed è per questo che è il padre a guidare e dirigere le operazioni. Nella steppa sconfinata non ci sono riferimenti naturali che indichino il posizionamento del confine. Il potere del pastore è innanzitutto un potere di scelta sul posizionamento territoriale, nella quale si deve riconoscere un carattere proto-giuridico. Solo nella steppa il pastore è propriamente sovrano. La sua è una sovranità che ha come orizzonte lo spazio aperto dei pascoli illimitati. Parafrasando Schmitt si dovrebbe dire che «sovrano è colui che decide del confine», colui che pone questo limite come dato di fatto1.

Il potere di stabulazione, emancipandosi dalla funzione produttiva immediata, si generalizza divenendo esso stesso la fonte da cui sgorgano le categorie del sacro. L’atto che delimita i confini è il primo atto «sacro», lo è perché divide e separa lo spazio delimitato dal recinto dallo spazio esterno. Benveniste, fa risalire il significato di rex a colui che definisce e traccia i confini, estensivamente intesi come le regole di riferimento del gruppo. Il sacerdote ha il compito di tracciare i limiti della città e di decretare le regole del diritto (2001: 291). La sua «sacralità» è nel potere di imporre in forza di legge. L’atto sacro e l’atto di sovranità sfumano, alle origini, l’uno sull’altro, confondendo i margini che li distinguono. Gli indoeuropei definiscono in modo apparentemente ambiguo la nozione di «sacro». Il termine PIE *sak indica sia la forza sovrana degli dèi, sia ciò che supera la soglia, l’escluso, il ‘separato’. È in quanto separato dall’insieme del gregge che l’animale diviene sacro, quindi sacrificabile. «Per rendere ‘sacra’ la bestia, bisogna escluderla dal mondo dei vivi, bisogna che essa superi la soglia che separa i due universi; è il fine della messa a morte» (426). L’animale ritualmente consacrato al dio per essere immolato nel sacrificio è tolto dal gregge, posto fuori dal recinto che lo contiene con gli altri. Così, allo stesso modo, «colui che è detto sacer porta una vera colpa infamante che lo mette fuori dalla società degli uomini: si deve fuggire il suo contatto. Se lo si uccide, non si è omicidi. Un homo sacer è per gli uomini ciò che l’animale sacer è per gli dei: né l’uno né l’altro hanno niente in comune con il mondo degli uomini» (427). Rendere sacer vuol dire imporre una separazione, un’esclusione da ciò che è nel recinto per donare l’oggetto separato in dedica a un ambito divino. Questo potere di decidere della «sacertà» di una bestia è senza dubbio attributo del pastore originario. Il rex eredita queste virtù e questo potere sovrano. Egli può decretare l’eventuale sacertà di un uomo escludendolo dalla legge, bandito dalla sfera di protezione, messo al bando dal recinto che lo protegge. Senza protezione egli è uccidibile. Nessuna colpa è imputabile al suo eventuale assassino, perché, in quanto escluso, la legge non lo tutela. Non è più sotto la sovranità della legge. Giorgio Agamben ha dimostrato la natura giuridica fondamentale di questa pratica arcaica (1995). 

Il regere fines, l’atto preliminare della costruzione, evoca questo specifico contesto. «È l’operazione che compie il grande sacerdote per la costruzione di un tempio o di una città e che consiste nell’indicare sul terreno lo spazio consacrato. Operazione di cui è evidente il carattere magico: si tratta di delimitare l’interno e l’esterno, il regno del sacro e il regno del profano, il territorio nazionale e il territorio straniero. Questo tracciato è fatto dal personaggio investito del massimo potere, il rex» (Benveniste; 2001: 295). Lo stesso atto di fondazione della città di Roma da parte di Romolo raccontata dal mito corrisponde a questa antica pratica. Romolo, posizionando il proprio «recinto» sul colle Palatino, ne consacra anche l’inviolabilità. La trasgressione del tracciato sacro costa la vita al fratello Remo. Si spiega così perché il ruolo del *regs, in origine, si riferisce alle funzioni sacre anziché a quelle secolari. «Il rex indoeuropeo», infatti, «è molto più religioso che politico» (295). 

Una volta che il limes è stabilito si tratta di impedire qualunque violazione dello spazio reso sacro dalla recinzione. Fin dall’origine, ancor prima della vicenda di Romolo e Remo, per i pastori-guerrieri si trattava di punire ogni superamento del confine, di respingere ogni aggressione ferina, di scoraggiare qualsiasi trasgressione della soglia. Il pastore si fa «guerriero», ovvero colui che difende il confine e l’ordinamento che in esso vige. Posti i confini, essi devono essere difesi. Il guerriero che se ne fa garante assurge al ruolo di eroe, colui che, completamente votato alla sua missione, sfida la morte. In cambio, la vita eterna nella memoria degli uomini. È la nascita dei miti eroici. Ad essere celebrata è la forza che difende il limes, la forza che preserva il tracciato, il solco che ha decretato quello spazio come esclusivo della gens. L’eroismo conduce il guerriero alla gloria (gr. kléos), il destino più alto che un uomo può desiderare. Inizialmente predisposto alla difesa dello steccato, il guerriero diventa presto strumento di nuove conquiste. Egli, cioè, sposta il limite permettendo al *regs di sancire una nuova frontiera dei possedimenti. Si potrebbe dire che il *regs sancisce con un rito di consacrazione formale del territorio quello che la violenza del guerriero gli consegna. 

1 Nella scienza giuridica, come è noto, la validità di un sistema di diritto è strettamente connesso all’ordine definito dai confini, che rappresentano l’ambito giurisdizionale entro il quale un diritto è operante.

Bibliografia:

Agamben, Giorgio 

Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita; Einaudi; Torino; 1995

Benveniste, Emile

Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee; Einaudi; Torino; 2000

Bocchi, Gianni; Ceruti, Mauro (a cura)

Le radici prime dell’Europa; Mondadori; Milano; 2001

Campanile, Enrico; Comrie, Bernard; Watkins, Calvert 

Introduzione alla lingua e alla cultura degli Indoeuropei; Il mulino; Bologna; 2005

Cavalli-Sforza, Luca Luigi; Menozzi, Paolo; Piazza, Alberto

Storia e geografia dei geni umani; Adelphi; Milano; 2000

Childe, Vere Gordon 

L’alba della civiltà europea; Einaudi; Torino; 1972

Preistoria della civiltà europea; Sansoni; Firenze; 1966

Dumézil, George 

L’ideologia tripartita degli indoeuropei; Il cerchio; Rimini; 2003

Eisler, Riane 

Il calice e la spada; Pratiche editrice; Parma; 1996

Gimbutas, Marija 

Kurgan. Le origini della cultura europea; Medusa; Milano; 2010

The Kurgan culture and the Indo-Europeanization of Europe. Selected articles from 1952 to 1993; Institute for the Study of Man; Washington; 1997

Laroche, Emmanuel 

Histoire de la racine nem- en grec ancien; Librairie C. Klincksieck; Paris; 1949

Mallory, Patrick James 

In search of the indo-europeans: language, archaeology and myth; Thames & Hudson; London; 1989

Marx, Karl 

Quaderni antropologici; Unicopli; Milano; 2009

Il capitale; Editori Riuniti; Roma; 1980

Oppenheimer, Franz

The State; Free Life Editions; New York; 1975

Schmitt, Carl 

Il nomos della terra; Adelphi; Milano; 1991

Villar, Francisco

Gli indoeuropei e le origini d’Europa; Il Mulino; Bologna; 2008